Anni fa, l’Atir Teatro diretto da Serena Sinigaglia preparò una versione molto attuale e molto lodata del Romeo e Giulietta di Shakespeare. Fra i meriti di quell’edizione, che riprendeva uno spettacolo degli anni ’90 realizzato dallo stesso gruppo, c’era la piacevole sorpresa di Arianna Scommegna. Una Giulietta stranissima, come non s’era mai vista (tranne quindic’anni prima, suppongo). Allegra e sfrontata, tenera e moderna, e tuttavia tragica.
La Scommegna riusciva a dare una voce unica a Giulietta. Che poi “voce” vuol dire anche fisicità, intensità, tutto. Ma s’era capito, no?
Shakespeare in Algeria
L’altra sera ho rivisto la stessa compagnia, con la stessa Scommegna e colleghe tutte al femminile, portare in scena uno spettacolo come se ne vedono pochi. “Alla mia età mi nascondo ancora per fumare” è teatro al femminile, ma molto, molto, molto lontano dalle rappresentazioni di teatro impegnato “al femminile” italico.
Sarà perché l’ha scritto un’algerina, Rayhana, costretta a firmare con uno pseudonimo i suoi lavori perché aggredita per la liberalità dei suoi testi da un gruppo di fondamentalisti islamici nella pur civilissima (a sentir i giornali) Parigi. Che magari civilissima non è: è una città complicata come tutte le città-icona immerse in situazioni sociali mica tanto iconiche. Ma lo sapete i giornali come sono.
Il testo dell’autrice algerina è un racconto corale di 9 donne diversamente laiche, tranne una, in un hammam per un giorno, un unico giorno, negato agli uomini.
Entrare con la forza
Benché sia chiuso agli uomini solo in quel giorno, gli uomini finiscono per non tollerare quello spazio tutto femminile, in cui all’arrivo le donne si aprono (nel nudo iniziale letteralmente) sciogliendo le corde – elemento scenico visto anche nel “Giulietta” di cui sopra – e abbandonando i veli. E finiscono per tentare di entrarvi con la forza, i maschi, i barbuti, per riaffermare il proprio controllo sui comportamenti e sul corpo di una “sventurata” rimasta incinta a 16 anni.
Non si può dire che il testo sia perfetto. Ma ha certamente molti pregi. Anzitutto, è un’opera corale per sole donne, con buone parti, tutte sullo stesso piano. E poi racconta la condizione femminile algerina dall’interno, e non ha problemi a farne una tragedia al tempo stesso lieve e spietata. Noi, in Italia, abbiamo difficoltà con le tragedie. Preferiamo il melodramma, o il pastiche grottesco.
Lucciconi
La Sinigaglia ci ricorda invece che con le tragedie si trova benissimo, allestendo una regia semplice e funzionale, con un paio di belle intuizioni e un finale certamente a effetto, efficace e retorico quanto basta, ma di rara precisione, proprio quando si aveva l’impressione che la storia non sapesse come chiudersi.
È nel finale che la Scommegna ritira fuori quella “voce” personale che così bene si attaglia alle tragedie moderne. L’inflessione lombarda, la cantilena bambinesca, che alla lunga possono diventare vizi, maniere che tutti gli attori prima o poi acquisiscono, qui risultano punti di forza, grazie alla capacità di modularli e al contrasto con il materiale drammaturgico del personaggio.
La Sinigaglia utilizza la sua attrice con sapienza così millimetrica, che noi ingenui si rimane a bocca aperta e a lucciconi gonfi nel momento degli applausi. Il duro ma poetico finale ci ammonisce sull’impossibilità di vittoria per il mondo femminile, se si rassegna a giustificare quella cultura patriarcale che molte si sono acconciate a trovar normale.
L’hammam Italia
Un tema che va oltre la storia raccontata e che, con una dose di tragedia molto inferiore, interroga anche il nostro tempo e la sessualizzazione funzionale delle ladylike nostrane, giovani e meno giovani. E forse è proprio la mancanza di senso del tragico – benché vicende tragiche anche da noi non manchino – che contribuisce a farci sembrare un certo arretramento nella condizione femminile in Italia tutto sommato veniale. Un po’ meno di una tragedia. Anche se, a ben guardare, la tragedia c’è tutta.